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| A Vinovo, quando finiscono le colonne e il ruminare ferroso dei tir e comincia una strada dal nome senza battesimo, Débouché, una strada che sembra andare da nessuna parte, c’è un prato dove si allena Alessandro Del Piero. Per guardarlo si sale sul tetto piatto di un edificio prefabbricato, uno spiazzo da cecchini, sopra un posto chiamato “Mondo Juve”, una specie di lunapark senza le giostre. È un lunedì pomeriggio e si gela. Sul terreno corrono i ragazzi della Primavera, della prima squadra ci sono soltanto i tre portieri, un paio di riserve e lui, il capitano. Più tardi dirà, offrendomi un bicchiere di tè: «Volevo fare un po’ di palla. Vedi, ho sempre dato molta importanza al mio piede sinistro. Ci lavoro da quando avevo nove anni, incoraggiato dal mio primo maestro, Umberto Prestia. Il mio piede destro è più sensibile e preciso, è quello delle punizioni. Il sinistro è più potente». In campo l’esercizio è questo: i giocatori stanno in fila indiana a una trentina di metri dalla porta con un pallone tra le mani, lo lanciano a un preparatore che glielo restituisce facendolo rimbalzare sul prato. Loro devono calciarlo al volo. Del Piero compie sedici ripetizioni e fa nove gol, tra questi un pallonetto di destro con tocco sotto il cuoio e un sinistro violento che riprende il precedente destro respinto dall’incrocio dei pali. Nessuno in Italia calcia come lui. Qualcuno ha detto: è un robot. Quando abitava nel centro di Torino, ogni mattina entrava in un piccolo bar di via Carlo Alberto. Jeans, giubbotto di pelle, cappellino calato sugli occhi. Ordinava una spremuta. La beveva al banco, le spalle all’ingresso. Gentile e lontano. Un singolarista. «Un timido diventato diffidente. Non credo che un rapporto professionale, un incontro, un’amicizia debbano per forza trasformarsi in una seduta di psicanalisi. Avevo tredici anni quando sono andato da San Vendemiano a Padova. Ero solo, ero un bambino di campagna costretto a lasciare la famiglia per inseguire un pallone. Padova mi sembrava una città enorme. Mi mozzò il respiro». Lo sistemarono in un appartamento assieme a altri quattordici ragazzi. Ogni due o tre settimane c’era chi se ne andava, chi arrivava. Adolescenti pieni di storie differenti che non osavano raccontarsi, o forse non c’era il tempo per farlo. «È stata un’esperienza dura e formativa, con gli anni il calcio mi ha dato sicurezza. E mi ha condotto dentro la solitudine. Sembro un paraculo, sono un introverso. Trascorro spesso quattro giorni la settimana con i compagni. Ventiquattro ore su ventiquattro. Alla fine voglio vedere altre persone. Vado a cercare chi mi è mancato». Bigatto, Rosetta, Monti, Varglien, Rava, Parola, Boniperti, Sivori, Castano, Salvadore, Furino, Scirea, Brio, Tacconi, Baggio, Vialli, Conte. Sono stati i capitani della Juventus. Alessandro Del Piero è il diciottesimo. Lo è diventato nel 2001. Nello stesso anno ha p...Read the whole post... |
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